Coronavirus, l’ozonoterapia evita la terapia intensiva
Scritto da Redazione RCS RADIO SICILIA on 6 Aprile 2020
Coronavirus, l’ozonoterapia evita la terapia intensiva
Sperimentazione a Udine: su 36 malati con polmonite e difficoltà respiratorie solo uno è stato intubato. Il trattamento, associato agli antivirali, riduce il danno ai polmoni e rallenta l’infiammazione. Descrive il protocollo Amato De Monte, il medico del caso Englaro
Potrebbe arrivare dall’ozonoterapia la risposta clinica più efficace nei pazienti che hanno contratto Covid-19 e lottano per evitare il ricovero in terapia intensiva. A provarlo sono i risultati ottenuti dalla sperimentazione avviata all’ospedale di Udine, dove su 36 malati con polmonite e difficoltà respiratorie, soltanto uno è stato intubato: gli altri sono tutti migliorati e alcuni addirittura già dimessi dall’ospedale.
La messa a punto del protocollo e la richiesta all’Aifa
L’intuizione di sfruttare l’ozonoterapia contro il coronavirus porta la firma del direttore del Dipartimento di anestesia e rianimazione dell’Azienda sanitaria universitaria “Friuli centrale”, Amato De Monte. Lo stesso che, nel 2009, accompagnò Eluana Englaro, in coma vegetativo da 17 anni, nel percorso di graduale sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione. Insieme all’infettivologo Carlo Tascini, che dirige la clinica Malattie infettive, e a un’équipe di colleghi, ha messo a punto un protocollo che potrebbe rivoluzionare l’approccio alla cura e che, non a caso, ha già riscosso l’interesse di specialisti di tutta Italia. E’ proprio dai dati sin qui ottenuti che è partita la richiesta di autorizzazione all’Agenzia italiana del farmaco e al Comitato etico dell’istituto Spallanzani di Roma di procedere con uno studio su 200 pazienti Covid-19. Per puntare così al suo riconoscimento dal punto di vista metodologico a livello di comunità scientifica internazionale.
Come funziona la procedura
Il trattamento dei malati con l’ozonoterapia associata ai farmaci antivirali ha dunque dimostrato un rallentamento dell’infiammazione e una riduzione dei danni ai polmoni. La procedura prevede che dal paziente vengano prelevati 200 millilitri di sangue, che siano lasciati interagire con l’ozono per una decina di minuti e che gli siano poi reiniettati. Così per tre o quattro volte al massimo. L’infusione di ozono, in altre parole, contribuisce a potenziare la risposta dell’organismo nella lotta contro gli effetti dell’infezione in atto.
L’ozonoterapia, del resto, negli ospedali friulani di Udine e Tolmezzo non è affatto una novità. E in Italia, tra coloro che la praticano e insegnano da tempo, non a caso, c’è proprio De Monte. “Per l’esattezza, dal 1996”, spiega il primario, che è anche docente al corso di ozonoterapia organizzato all’università di Siena dalla professoressa Emma Borrelli, allieva del professor Velio Bocci, il primo a portare la pratica nel nostro Paese. “Prima che scoppiasse il coronavirus – riferisce De Monte – all’ospedale di Udine era già stato approvato uno studio per adoperarla su pazienti con problematiche vascolari agli arti inferiori. So che in altri ospedali la si sta usando in Terapia intensiva. Avevamo cominciato da lì anche noi, ma sbagliando, perché ci siamo accorti che a quel punto era troppo tardi per l’importanza dei danni provocati ai polmoni. E’ così – continua – che, insieme al collega Tascini, abbiamo deciso di vedere come funzionava se applicata precocemente, sui pazienti che rischiavano di essere intubati, perché con una compromissione della respirazione e già in ventilazione con il casco o con CPAP”.
Miglioramenti in tre sedute
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. “Dopo sole tre sedute – continua De Monte – abbiamo visto miglioramenti clamorosi, con una decisiva riduzione del bisogno di supporto di ossigeno”. Difficile, insomma, immaginare che, a fronte di tali riscontri, non si possa ottenere altrettanto anche su una platea più vasta di pazienti. In ogni caso, nella peggiore delle ipotesi la terapia non funziona: effetti collaterali non ne esistono. A questo punto, quindi, a fare la differenza potrebbe essere il fattore tempo. “La speranza è di ottenere una risposta quanto prima – conclude De Monte –, perché più immediato sarà il suo utilizzo, maggiore sarà l’aiuto che riusciremo a dare”.
Fonte: LaRepubblica